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Muti: «La mia sintonia immediata con Milano»

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28.07.2025

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo l’intervista al maestro Riccardo Muti realizzata da renato Farina e contenuta nel volume “Miracolo Milano (Mondadori Electa).

Maestro, anche lei partì per Milano, lasciando il cuore a Napoli.

Ricordo come fosse ieri. Era il novembre del 1962. L’allora direttore del conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, Jacopo Napoli, insigne musicista, si era trasferito a Milano ed era diventato direttore del conservatorio meneghino. Secondo lui, avevo già iniziato a mostrare qualche qualità direttoriale. Così mi chiese di seguirlo, anche perché a Milano insegnava direzione d’orchestra il grande Antonino Votto.

La sua famiglia è stata subito d’accordo?

Ci fu un consiglio di famiglia – allora funzionava così – per decidere se il giovane figlio poteva lasciare la città e trasferirsi. La mia famiglia diede il consenso, ma attenzione… a Milano fa freddo, mi dissero. Mi comprarono un cappello Borsalino da mettere in testa una volta arrivato.

In treno verso la Stazione centrale.

Partenza da Napoli la sera del primo novembre, viaggio notturno e arrivo a Milano il mattino presto. Avevo un biglietto di seconda o forse di terza classe. Eccomi alla meta verso le sei o le sette del mattino.

Il primo ricordo rimasto negli occhi e nel cuore?

La fa un po’ troppo romantica. Era la prima volta che mettevo piede in quella città, e stavo scendendo dalla carrozza con la testa piena di avvertimenti: a-Milano-fa-freddo, a-Milano-bisogna-coprirsi. Sarà stato per suggestione ma appena posato il piede sulla banchina ho sentito un freddo incredibile, pur essendo riparato da cappello, sciarpe e cappotto. C’era anche la nebbia. Stavo vivendo quella scena famosa del film con Totò e De Filippo.

Totò, Peppino e la malafemmina. Arrivarono a Milano come se andassero in Siberia: col colbacco.

Mi accontentai del Borsalino. Non ho mai portato il cappello prima, e non l’ho più indossato dopo. Mi avevano trovato una stanzetta in un albergo modesto in piazza Cinque Giornate, dove adesso c’è il Coin. Lasciata lì la valigia, mi sono subito diretto al conservatorio.

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Un secchione.

Ero curiosissimo di vedere questo famoso conservatorio, che aveva a suo tempo bocciato Verdi all’esame di ammissione da pianista (non aveva fatto quello da compositore!). Io venivo dal glorioso conservatorio di Napoli, grande anche dal punto di vista architettonico, e mi trovai davanti una palazzina bassa, per cui di primo acchito provai delusione, rispetto all’impatto che ebbi con l’omologo napoletano, dotato di rigogliose palme e della statua di un Beethoven occupato in profondi pensieri. Poi però, già entrando nel bellissimo atrio di quello meneghino, mi riconciliai.

Malinconia?

I primi giorni sono stati, ammetto, molto faticosi. Dovevo trovare una sistemazione, non potevo permettermi di vivere in albergo, seppure modesto. In via Tadino 2, a Porta Venezia, trovai alloggio da una vecchietta di Vicenza. Affittava una stanza.

Siamo in piena Bohème.

Non ancora, aspetti. Mi avevano spedito lì due bidelli del conservatorio, entrambi meridionali: uno si chiamava Gallucci, ed era un mutilato della Seconda guerra mondiale, e l’altra, Sandra, veniva da Lecce. Entro, accompagnato dalla padrona, in quella che doveva essere la mia stanza, e ci trovo due letti. «Il secondo appartiene a un tenore», mi spiegò la signora orgogliosa. Era veneto e si chiamava Manfrin. «Adesso è fuori per un concerto ma ritornerà stanotte», mi assicurò. Restai di sale. Non venivo certo da una famiglia ricca, ma mio padre era medico, ed eravamo comunque benestanti. Ritrovarsi a condividere un loculo, non sapendo nemmeno chi sarebbe arrivato nella notte a dividerlo con me, mi pareva un po’ troppo. Il mattino, quando mi sono svegliato, lui era nel suo letto, a distanza di mezzo metro dal mio. Mi ha dato la mano e mi ha detto «piacere Manfrin».

Magari aveva pure la gelida manina.

No, ma non sarebbe stato questo il problema. Questo tenore faceva anche i vocalizzi con un pianoforte stipato presso i due giacigli. Aveva di diritto la precedenza. Per........

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