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Ferdinando Scianna: «Per tutta la vita ho guardato il mondo dal basso»

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24.03.2025

Ferdinando Scianna, 82 anni da compiere a luglio, non è tipo da risposte banali. Nella sua carriera ha scavato a fondo delle sue origini, senza la paura di ammettere che lui l’umanità l’ha sempre guardata «dal basso», perché «sono nato in una società contadina e questo rimango, per quanto possa studiare o girare il mondo». La Sicilia è in ogni sua parola, pur avendo lasciato l’isola «per fuggire dalla professione di medico o ingegnere che altri avevano pensato per me» ormai sessant’anni fa. «Sono cresciuto tra i tavoli della bottega di mio nonno falegname e i vicoli di Bagheria, a due passi da Palermo».

Avvolto dai fumi dell’amata pipa («mi hanno detto che non è più politically correct»), Scianna, che ormai da anni ha appeso la macchina fotografica al chiodo «per fare solitari con il materiale che ho acquisito nel tempo», si lascia andare a qualche confidenza. Non smarrisce mai la lucidità che ne ha segnato le scelte e non tralascia le contraddizioni, le gioie e i dolori che ha incontrato nella sua vita. Primo fotografo italiano ad essere annoverato tra le fila dell’agenzia Magnum Photos nel 1982, forse la più celebre al mondo, i viaggi in giro per il globo e gli innumerevoli successi non hanno placato l’animo inquieto, alla costante ricerca di un “più in là”, del reporter siciliano.

Partiamo dalle parole che ci rivolse a chiusura dell’intervista per la presentazione della sua mostra al Centro Culturale di Milano da poco conclusa: «L’importante è che ti diverti».

È un mio leitmotiv. Probabilmente a quindici anni la cosa che ritenevo più importante nella vita era di guadagnarmi il Paradiso, poi capii che dovevo invece impegnarmi per costruire una società meno infame di quella in cui vivevo. In vecchiaia sono arrivato alla conclusione che qualunque sia il desiderio e l’istanza per cui si è mossi, siccome la vita è un miracolo difficilmente spiegabile, la cosa più importante è cercare di viverla divertendosi, che non vuol dire andare a gozzovigliare, può anche significare agire, pensare, avere rapporti con gli amici.

Più di una volta lei si è schierato contro «i fotografi che dicono che fare fotografia li fa soffrire».

La mia è la ripetizione di una citazione di Leonardo Sciascia che diceva: «Molti miei amici scrittori dicono che quando scrivono soffrono moltissimo e io mi chiedo “Perché lo fanno?”. Posso scrivere anche di cose che mi angosciano, però quando scrivo lo faccio per divertirmi, per esprimermi, quindi per essere felice». Non trovo ci sia nulla da aggiungere.

Fu suo padre a regalarle la prima macchina fotografica quando lei aveva quindici anni. Scelta di cui poi si pentì amaramente, per lui il fotografo era «uno che ammazza i vivi e resuscita i morti».

È una grande definizione, anche Roland Barthes ne dava una molto simile. Solo che le parole di mio padre si legavano a un personaggio specifico, il fotografo del paese, tal Coglitore. Spesso figli e parenti insistevano con gli anziani perché si facessero ritrarre, ma questi erano scaramantici, sapevano che la foto sarebbe servita solo per essere affissa sul marmo della tomba. Così l’uomo si era specializzato nel fotografare le salme, gli scatti poi con rudimentali fotomontaggi diventavano i ritratti di uomini vivi e vegeti. Però il fotografo si era talmente abituato a questa pratica che quando fotografava i vivi, questi sembravano morti.

Pur in maniera grossolana, si applicava l’idea, caratteristica dei primo Novecento, che la fotografia «salva l’istante del tempo».

Sì, si trattava di una specie di illusione da delirio di novità. A dirlo oggi è un po’ comico, sono scomparse persino le statue di bronzo, figuriamoci un foglietto di carta. C’è sempre questa sproporzione tra la dimensione fulminea dell’esistenza umana e l’idea dell’eternità che non riusciamo neanche a concepire. La fotografia non salva niente, però è stata una novità nella cultura occidentale, alla quale pare non si tenga più neanche tanto, che è quella di avere per la prima volta nella storia delle immagini che sono “ricevute” dal mondo, non “fatte” da chi le esegue. E nello scatto il mondo lascia una sua traccia, che ha un carisma molto diverso da quello di un ritratto dipinto o anche di una frase letteraria che rievoca una persona. Nella foto della propria madre che si tiene nel portafoglio è contenuto il momento in cui lei era lì davanti al fotografo, c’è qualcosa che la lega profondamente alla realtà.

Dalle sue parole trapela sempre una sorta di di odio-amore nel legame con la sua Sicilia. Ma non parla mai di “nostalgia”, perché ha più volte ripetuto che in qualche modo rifugge questo sentimento.

La considero una menzogna detta a se stessi. Dall’insoddisfazione per la vita che si sta conducendo viene l’ipotesi che il passato fosse migliore del presente, ma quand’ero giovane mi mancavano delle cose per sviluppare la mia persona. Ci può anche essere addirittura una forma di nostalgia proiettata verso il futuro, che fa pensare che «il domani sarà di certo più bello». Non è mai né meglio né peggio, la qualità di quello che si vive sta soltanto nel presente.

Vallelunga, Caltanissetta, 1964 (foto di Ferdinando Scianna ©)

Però rispetto alla Sicilia tiene moltissimo all’idea di villaggio, di appartenenza ad una comunità. Perché?

A riguardo ho addirittura messo come conclusione di un libro sul mio paese una frase di Ernesto De Martino, grande antropologo degli anni ’50. Diceva che «soltanto chi ha un villaggio nella memoria, può fare un’esperienza cosmopolita». Per villaggio intendo un luogo in cui l’individualità si fonde e viene espressa da una comunità, può essere anche un quartiere di Los Angeles o di Düsseldorf. Significa che quello che sei oggi è profondamente determinato dal contesto che ti ha reso........

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