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I costi insopportabili della guerra e i profitti della pace

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16.10.2025

Il capitano della riserva dell’Idf, l’Israeli defence force, Ron Biran, 34 anni, è stato richiamato al fronte per la quarta volta dopo i tre anni di servizio militare, e per quattro volte ha dovuto combattere, tra Gaza e il Libano, abbandonando il suo lavoro di creatore di start up a Tel Aviv che gli fa guadagnare ventimila dollari al mese: «Dobbiamo difenderci – ci dice – ora c’è la tregua, ma la guerra non è finita. Potrei vivere in pace e guadagnare bene, ho due figli, due bambini di dieci e sette anni, anche mia moglie lavora nell’informatica. Non ci spaventano i prezzi alti di Tel Aviv, sapete che è tra le tre città più care del mondo?».

Lo dice mentre è seduto su una panchina dello Yarkon Park di Tel Aviv da dove ci parla, tra un laghetto circondato da un grande prato dove giocano i bambini e un orto botanico, visitato ogni anno da quindici milioni di persone. «Qui sembra un paradiso, ora sono in licenza ma devo tornare alla mia unità e anche qui ogni istante possono suonare le sirene, o un kamikaze si può fare esplodere: la guerra è una minaccia costante, che ci accompagna da quando siamo nati. Una guerra che non vogliamo. Altri riservisti hanno rifiutato di tornare a combattere, uno solo finora è stato condannato a venti giorni di carcere. Altri evitano il servizio con certificati medici, altri più giovani sono ultraortodossi e riescono a restare a casa, o meglio nelle loro scuole, perché, dicono, il loro compito è studiare i testi religiosi. Io no, alterno periodi di lavoro e periodi con la divisa».

Gaza City, 11 ottobre 2025 (Ansa)

«Famiglie intere hanno perso tutto»

«Io – prosegue Biran nel suo racconto – rischio la vita, e quando sono barricato nelle trincee vedo poco distanti le luci della città e penso quando sto perdendo, quanta vita e quanto lavoro. Conto di mettermi in proprio, l’azienda per cui lavoro è cresciuta enormemente ma ci sono ancora molte possibilità. E sulle start up di alta tecnologia non ci sono embarghi e per fortuna il lavoro non si perde. Più difficile per chi lavora nell’agricoltura, nell’allevamento, nei kibbutz e nei moshav, le fattorie collettive: anche lì ci sono applicazioni straordinarie che permettono raccolti magnifici, il deserto fiorisce ma bisogna essere presenti, aver cura dei campi e degli animali. Il servizio militare, per chi non riesce ad evitarlo, è un danno per tutto, per la tua vita e per la tua famiglia – gli orrori che vedi non ti abbandonano mai – e per i tuoi risparmi, potresti essere benestante e goderti i figli e avere tante occasioni, e lo pensi mentre rischi di morire. Con noi ci sono soldati arabi, drusi e beduini, e credo che per loro sia ancora più dura. Non hanno nemmeno il pensiero di combattere per il paese dei loro antenati; io non sono religioso ma questo senso di appartenenza al mio popolo, il popolo di Israele, me lo sento dentro. E ci sono i palestinesi che abbiamo di fronte, tra loro si nascondono i terroristi, lo so bene, ma vedo famiglie intere che hanno perso tutto, e ci sono professionisti, medici, ingegneri: le loro case distrutte. Forse nella nuova Gaza avranno di nuovo un lavoro e una vita. Non più terroristi, lo spero per loro e per noi, ma ci vorranno generazioni prima che il solco di odio sia spianato».

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