Non bisogna avere paura della verità. È ciò di cui tutti hanno più bisogno
Per gentile concessione dell’editore Liberilibri, pubblichiamo ampi stralci del capitolo “Media e cultura: la verità è divisiva?” de L’interminabile ’68 di Giancarlo Cesana, prefazione di Giuliano Ferrara, ora in libreria. I titoletti sono opera redazionale.
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Quando frequentavo il liceo, cominciai a comprare saltuariamente il giornale; poi, andando all’università, divenne un’abitudine quotidiana: sul tram “diretto” da Carate a Milano delle 7.20, per cinquanta minuti mi isolavo dal mondo circostante per cercare sul quotidiano il mondo “universale”. All’inizio “bevevo” editoriali e commenti; la cronaca mi interessava meno. Poi, con l’ingresso in CL, ho cominciato ad essere ben più critico: spesso, infatti, anche indipendentemente dall’orientamento culturale e politico, i giornali parlavano male di noi e le conseguenze sulla nostra già scarsa popolarità negli ambienti di studio e di lavoro non erano da poco, non solo per l’opinione negativa nei nostri confronti, ma anche per le minacce all’incolumità fisica. Insegnando all’università, ed essendo abbastanza noto come ciellino, nei rapporti con i colleghi e quando facevo lezione, percepivo su di me uno sguardo sospettoso che mi faceva sentire come se dovessi dimostrare di non essere un pericoloso agente dell’Inquisizione – come spesso noi di CL venivamo presentati.
Conoscendo personalmente moltissimi dei miei correligionari, sapevo che quello che la stampa riportava su di noi non era vero. I giornali – e in quel caso avevo la prova provata visto che la cosa mi riguardava direttamente – dicevano il falso per ignoranza, per superficialità, o per mera propaganda: quale che fosse il motivo per me erano inescusabili, perché non trasmettevano notizie, ma amplificavano calunnie senza alcuna verifica.
Adesso la musica su CL è un po’ più dolce. Viene naturale chiedersi se siano cambiati i giornali, oppure se siamo cambiati noi. La risposta è, come succede di solito, entrambi. I pregressi furori ideologici si sono un po’ calmati e, dopo la morte di Giussani, noi siamo stati meno “provocatori”, pubblicamente intervenendo di meno, o in modo più blando. Tuttavia, ciò non ha eliminato la falsità delle considerazioni nei confronti del profilo del nostro movimento, ma l’ha solo attutita, rendendola più accettabile e quindi anche più pervasiva.
Detto questo, sarò un nostalgico, ma rimango assolutamente convinto della centralità dei giornali nel creare informazione e opinione. Restano, nel bene e nel male, un utilissimo specchio del mondo in cui viviamo. Non credo che i giornalisti siano una categoria professionale “malvagia”, come vengono spesso descritti tra grossolani detrattori. Certo, però, non sono di frequente, come amano invece retoricamente dipingersi, un esercito di idealisti dediti alla battaglia in favore della verità, contro la menzogna e il malaffare. Sono soggetti a influenze potenti della politica, dell’economia e anche della pubblica opinione con tutto ciò che questo comporta in termini di generale uniformazione. Subiscono la tentazione degli scribi, che nel Vangelo sono quasi proverbialmente accomunati ai farisei, come difensori dello status quo, di quello che si sa già e deve essere quasi obbligatoriamente riconosciuto.
La verità è divisiva?
La verità è diventata problematica. Questa frase icastica potrebbe far sobbalzare sulla sedia, ma tant’è. Qui per verità intendo due principi: sia l’idea che vi sia una Verità ultima delle cose della vita, che per noi credenti è stata rivelata nel cristianesimo; sia l’idea che vi sia una verità oggettiva delle cose del mondo, una realtà effettiva, che non muta in base ai nostri desideri o ai nomi che assegniamo a quel che c’è e succede. Poiché la verità è così problematica, avendo a che fare con il senso della vita e con una sua durezza che non si lascia piegare in base a ciò che vorremmo che fosse, essa diviene qualcosa da accantonare. La verità, paradossalmente, è divenuta un concetto inavvicinabile, roba da fanatici, dogmatici, reazionari. Eppure che cosa dovremmo cercare nella nostra vita se non la verità?
La perdita di fiducia nella possibilità della verità credo stia nel fatto che essa è ritenuta così grande, così complessa, da essere irraggiungibile: chiunque pensi di comunicarla, cioè di averla trovata, farebbe un atto di insopportabile presunzione. «Dio [cioè la verità] se c’è non centra», dice Cornelio Fabro (1911-1995) della mentalità prevalente.
Mi chiedo che cosa questi atei o agnostici pensino del valore di ciò su cui riflettono, parlano o addirittura scrivono, se il concetto di verità viene sostanzialmente accantonato o peggio relativizzato, annacquato, diluito, reso........
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