Se la famiglia è in crisi la scuola non è la cura
Chi scrive questo pezzo da ragazzo era troppo povero per permettersi il lusso di giocare al comunista.
Quello era il passatempo dei figli di papà, che trascorrevano le giornate a organizzare la rivoluzione proletaria al tavolo del biliardo o a discettare su Engels e Marcuse nella villa in Sardegna. Forse è per quello che gli sono sempre stati sul gozzo, soprattutto dopo averli visti, raffreddati i bollori giovanili, passare nelle file del Psi prima e di Forza Italia dopo, improvvisamente folgorati - chissà come mai - dal verbo liberale, libertario e liberista. E tanti saluti a Che Guevara e la sua motocicletta.
E quindi al ragazzotto di cui sopra, mentre gli altri bivaccavano da eterni fuoricorso a Scienze politiche, toccava studiare e lavorare e la classica occupazione dello studente lavoratore consisteva nelle supplenze nelle scuole di ogni ordine e grado: medie, superiori, diurne, serali, tecniche, umanistiche. Insomma, si rastrellava tutto quello che c’era sul mercato, molto rigoglioso, in verità, visto che abbondavano i docenti ai quali per un taglio a un dito venivano refertate due settimane di malattia, dieci giorni per un’influenzina, senza contare quelli che, appena prima delle festività di Natale o di Pasqua, se ne tornavano al paesello e appena dopo se ne perdevano le tracce. Luoghi comuni, si dirà. Ma il bello dei luoghi comuni è che sono veri.
E fra i discorsi motivazionali che i presidi facevano al giovane supplente spiccava l’importanza cardinale della scuola, che non doveva limitarsi a essere mera........





















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