ll paradosso del taser, quell’arma “non letale” che continua a uccidere
La notizia è arrivata all’alba di lunedì scorso, come un tragico déjà vu che riporta in primo piano un dibattito mai chiuso. A Reggio Emilia, in periferia, un uomo di 41 anni è morto dopo essere stato colpito dal taser della polizia. Era in evidente stato di alterazione psicofisica, la stessa condizione che ricorre in altre vicende simili degli ultimi mesi. La Procura ha aperto un’inchiesta, ma la domanda resta sempre la stessa: un’arma definita “non letale” può davvero dirsi sicura?
Per capirlo bisogna tornare indietro di un mese, al 16 agosto, quando a Olbia i carabinieri usarono il taser contro Gianpiero Demartis, 57 anni, in preda a un forte stato di agitazione. L’uomo si accasciò a terra e morì poco dopo, nonostante i soccorsi. L’autopsia ha parlato di “scompenso cardiaco in cardiopatia ischemica”, una patologia preesistente aggravata da uno stent coronarico. Il Partito Radicale, con il segretario Maurizio Turco, ha sollevato il dubbio più scomodo: se la scarica elettrica, colpendo un corpo già fragile, abbia avuto un ruolo decisivo nel precipitare la situazione.
Non si tratta di episodi isolati. A giugno, a Pescara, era morto anche il trentenne Riccardo Zappone, e il copione si ripete con una regolarità inquietante. Le vittime non sono criminali in fuga, ma quasi sempre persone in pieno stato di alterazione psicofisica. Corpi già provati da patologie cardiovascolari, come nel caso di Demartis, o sotto l’effetto di sostanze e adrenalina, come per Elton Bani. È proprio in queste situazioni che la polizia ricorre al taser, considerato l’alternativa intermedia tra lo scontro fisico e l’arma da fuoco. Eppure la letteratura scientifica, come gli stessi manuali d’uso, avvertono: è proprio in queste condizioni che il rischio di arresto cardiaco aumenta in modo significativo.
Il cuore del problema si trova nelle avvertenze che accompagnano........
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