Grandi o piccoli impianti? Un cortocircuito istituzionale che rallenta la transizione energetica
L’Italia rischia di mancare gli obiettivi climatici del 2030. Lo dicono le statistiche, i report europei, ma lo ha evidenziato chiaramente anche il forum “Renewable Thinking” di Saint-Vincent, organizzato da CVA e The European House–Ambrosetti, con il patrocinio di Elettricità Futura. In quel contesto, è emersa una verità che spesso viene aggirata nei dibattiti pubblici: i ritardi italiani nella transizione energetica non sono solo frutto di burocrazia, ma il risultato diretto di un cortocircuito istituzionale tra Stato e Regioni.
A livello nazionale, il legislatore ha scelto – giustamente – di concentrare le risorse e l’attenzione su impianti superiori a 50 megawatt. Grandi progetti fotovoltaici, eolici, agrovoltaici. Impianti capaci, se autorizzati in tempi certi, di cambiare il mix energetico del Paese nel giro di pochi anni. Per questo la Commissione PNRR-PNIEC ha ricevuto un preciso indirizzo normativo: dare priorità ai progetti più rilevanti dal punto di vista della capacità installata. È una scelta coerente con la logica dell’interesse nazionale e con gli impegni assunti in sede europea.
Ma appena questi impianti scendono sul territorio, entrano in un’altra logica. Quella locale. Quella delle Regioni e dei Comuni, che preferiscono – quando preferiscono – autorizzare piccoli impianti, distribuiti, meno visibili, più facili da far accettare a cittadini e comitati. Il risultato è una frattura netta tra strategia nazionale e operatività territoriale. Ciò che è prioritario per lo Stato, diventa spesso marginale per Regioni e Comuni. E così, mentre Roma vorrebbe correre, molte amministrazioni locali alzano ostacoli, dilatano i tempi, chiedono modifiche, o rimandano sine die.
Questa divergenza non è casuale. È il frutto........
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