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L'aria velenosa della "zona d'interesse"

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01.03.2024

Sì, l'ho fatto anche io. Dopo averne letto per giorni ci sono andata. Ho visto "La zona d'interesse", il film di Jonathan Glazer di cui ho sentito dire tutto e il contrario di tutto, e adesso so perché. Perché nel film interagiscono di continuo, dentro e fuori (di te), tutto e il contrario di tutto.

Per ogni luce, parola, silenzio, gesto, pane e burro, porta chiusa, cane che cammina tra le persone, sedia sul patio, corridoio (ce ne sono tantissimi, in una sola villetta monofamiliare) (ce ne sono tantissimi, in una sola storia monotona che vive tutta appoggiata su un contesto invisibile), esiste il contrario, la negazione o il rovesciamento di quello che vediamo. Solo, non lo vediamo. Lo sentiamo e lo pensiamo, ci passa dentro, con il peso aereo e persistente di tutte le centinaia di narrazioni e pellicole e scritture che, negli anni, ci hanno narrato l'inenarrabile.

Glazer chiama a raccolta tutto l'immaginario precedente, semplicemente negandolo, annullandolo, confinandolo. Dietro il muro. Così una deliziosa villetta con giardino, piscinetta e persino serra per un'armoniosa famigliola non può che essere il contrario esatto di quello che c'è appena accanto, oltre il muro: Auschwitz, che è (ancora) uno dei più potenti nomi del Male.

A cominciare dal titolo, il film è tutto giocato sulla negazione: "zona d'interesse" è lessico burocratico tedesco, e indicava, fin dal 1941, tutta l'area del campo di concentramento di Auschwitz e l’intera regione attorno. E in tutto il film, in cui non si vede un solo pigiama a righe, un solo canelupo, un solo internato coi segni della morte addosso, il cuore nero della narrazione - quello che ci portiamo tutti dentro la sala - è presente unicamente come problema burocratico e manageriale. Se non sapessimo che il protagonista Rudolf Hoss (ma non lo è davvero: nessun primo piano lo designa come tale, nessuno snodo narrativo lo mette davvero al centro) è il comandante di Auschwitz, grandemente lodato e ammirato non per la sua crudeltà ma per la sua efficienza, e la modalità industriale con cui affronta e risolve quello che è, anzitutto, un problema di logistica e di "produzione": lo sterminio di massa degli ebrei, penseremmo che è un industriale, un manager, uno che si occupa di stoccaggio merci e smaltimento scorie.

Anche in questo film (è un topos della narrazione del nazismo) c'è una seduta plenaria di alti ufficiali nazisti, con grande sfoggio di gradi e croci, che discutono della "liquidazione" dell'intera popolazione ebraica ungherese, eppure, ad ascoltarli, potrebbero essere tutti gestori di fabbriche o capannoni. La distanza è nelle parole, prima che nelle cose. La rimozione comincia da lì (e non a caso la burocrazia è un'arma di guerra: come chiamare una guerra d'aggressione "operazione speciale", come chiamare "ricerca dei terroristi" uno sterminio).

E ormai lo sanno tutti che il film (e questo, alla fine, è quasi l'unico legame col romanzo omonimo di Martin Amis da cui prende ispirazione) è interamente giocato sulla rimozione. Quello che capiamo guardandolo è la qualità attiva della rimozione, che non è assenza o passività, ma al contrario collaborazione costante, impegnativa e persino faticosa. La suocera di........

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