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La produttività influenza i salari, o almeno in teoria. E se fosse il contrario?

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14.09.2025

Il Rapporto annuale sulla produttività, elaborato dal Cnel con Istat e Banca d’Italia, non è soltanto un documento di analisi statistica ed economica: è anche un’occasione per riflettere su uno dei nodi più complessi e controversi del funzionamento dei sistemi economici: la dinamica della produttività e la sua relazione nel nostro Paese, alla luce del processo di rallentamento rispetto al contesto europeo.

A prima vista, la misura della produttività è quasi banale: è il rapporto tra produzione e risorse impiegate. Esprime una sintesi del processo di produzione. Nel caso del lavoro, quanta produzione otteniamo per ogni ora o unità di lavoro. Ma dietro questa formula lineare si nasconde un universo di complessità. La produttività non è un dato neutro: è il risultato finale di fattori storici, scelte tecnologiche, assetti istituzionali e persino culturali, che stanno dietro il risultato di sintesi. Non a caso Moses Abramovitz, uno dei maggiori economisti dello sviluppo, definì la Produttività Totale dei Fattori – quella parte della crescita che non si spiega né con il capitale né con il lavoro – come "la misura della nostra ignoranza". E questa ignoranza pesa eccome: dal 30 al 50% delle variazioni complessive a seconda dei paesi e le fasi di sviluppo.

La produttività è diventata, soprattutto nel dibattito economico-politico, il parametro decisivo per stabilire se e quanto possano crescere i salari. L’argomento è noto: se la produttività non cresce, come possiamo permetterci di aumentare le retribuzioni? Una tesi apparentemente logica, che ha trovato ampio spazio nelle visioni neoliberiste, secondo cui il mercato – con i suoi meccanismi concorrenziali – è l’arbitro ultimo che stabilisce chi “merita” salari alti. Ne deriverebbe una corrispondenza quasi automatica: alta produttività = alti salari, bassa produttività = basse retribuzioni. Ma non si tratta di una questione semplice ed automatica.

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