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Il femminismo non è un brand, è una festa

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05.04.2024

Femminismo liberale, femminismo neoliberista, femminismo pop, lipstick feminism, lean in feminism, equity feminism, femminismo della scelta, pseudo- femminismo, postfemminismo: sono tutti i termini che definiscono – secondo la giornalista femminista Jennifer Guerra, classe 1995, autrice per l’appunto del libro appena uscito Il femminismo non è un brand per Einaudi – l’ultimo femminismo, quello della “quarta ondata”.

Effettivamente fan riflettere (anche per generazioni come la mia più affini al femminismo storico della fine del secolo scorso) i rischi, evidenti, complici i social e Internet, che il femminismo sia preda di un paradigma economico tendente a capitalizzare i temi sociali in nome del profitto. Un esempio di pink-washing tra i tanti (pensiamo nel caso italiano, azzardo, a personaggi politici più neri che rosa solo in virtù dell’essere donne) è l’uso dei valori femministi come motivazione all’acquisto: ad esempio pubblicizzare un rossetto – afferma in un’intervista Guerra ad Elle – perché ci farebbe sentire più belle e sicure di noi, come se potessimo emanciparci solo comprando.

Così il concetto di empowerment, un termine nato nel contesto degli interventi per le donne vittime di violenza domestica che indicava l’accompagnamento all’autonomia economica, ha assunto sempre più un significato di potere e successo. In realtà, l’empowerment è una risorsa che va trovata dentro di sé: ed essere femminista non è, continua, necessariamente sinonimo di donna di successo.

Dove stia il guadagno da parte delle aziende in questa dinamica è chiaro, ma è importante valutare anche gli effetti secondari che, in maniera indiretta, si ripercuotono sull’attivismo femminista tout court. Il brand sceglie questa o quella attivista perché rappresenta i «valori» dell’azienda, vale a dire un modello di perfezione anzitutto “morale” (brand identity). E dove l’idea stessa di soggetto, di cittadino, di cittadina, di individuo, si trasforma in sé imprenditoriale: ciascuno è artefice del proprio destino, che si realizza attraverso un continuo investimento sulla propria persona.

Se l’economia finanziaria che muove capitali invisibili, smaterializzati, é per così dire un’architettura di vetro (per usare come fa Guerra la metafora di Frederic Jameson) volatile, spettrale, solo in apparenza trasparente, anche la metafora del “soffitto di cristallo” tanto cara al femminismo liberale assume per l’autrice un volto duplice. Al suo tradizionale significato di barriera che sta sopra la testa delle donne che ambiscono al potere, se ne aggiunge un secondo, che vede in quel soffitto un’enclave nell’enclave.

Così il potere ha saputo estrapolare dal femminismo quei valori che piú si confacevano ai suoi interessi, come la realizzazione dei propri desideri, l’autodeterminazione, la partecipazione alla vita pubblica e la libertà di scelta, “buttando nella spazzatura” o comunque mettendo in secondo piano la solidarietà, l’empatia, il mutuo aiuto e tutte le iniziative che vanno al di là del perimetro dell’individuo sui quali era nato il femminismo.

Ma va detto, in conclusione, la necessità di ancorarsi al femminismo, di proteggerlo da chi se ne vuole appropriare per il proprio interesse, non deve trasformarsi in moralismo. L’idea........

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