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Analisi La retorica del potere e la nuova responsabilità della Chiesa

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L’articolo che ho pubblicato su Avvenire sabato scorso, dedicato alla figura di Donald Trump, ha suscitato un dibattito vivace. Ne sono grato. Le reazioni ricevute – critiche, interrogative, riflessive – mi hanno spinto a riprendere pubblicamente il filo del discorso, per rispondere ad alcune osservazioni e valorizzare alcune riflessioni. Perché oggi, a mio avviso, parlare di linguaggio politico e di immaginario simbolico significa toccare il cuore della crisi democratica contemporanea.

Viviamo immersi in un tempo in cui la parola è sempre più azione, gesto, spettacolo. La politica ha assunto i tratti di una performance. Rischia di non essere più il luogo della persuasione razionale e della deliberazione collettiva, ma di trasformarsi in palcoscenico. I leader non sono più interpreti di progetti politici, ma registi di narrazioni. Il governo politico e performativo, la convinzione incantamento. Gli “uomini forti” della politica internazionale, in questo scenario, non sono semplicemente figure politiche controverse. Sono casi simbolici. Il loro linguaggio si muove in uno spazio che non è più solamente quello del dibattito democratico, ma quello della drammaturgia, della ritualità, dell’archetipo.

La figura del leader che crea mondi con la parola – che costruisce miti più che propone programmi – non è nuova nella storia. Anche Hitler e Mussolini usavano una retorica potente. I loro regimi totalitari non si affermarono solamente con la violenza fisica, ma con una straordinaria capacità di orchestrare l’immaginario. La loro forza fu la retorica semplice, martellante, istintiva, che toccava le viscere e anestetizzava la ragione. Le parole diventavano riti, gli slogan fede, i leader simulacri sacri. L’ideologia si imponeva non tanto per ciò che diceva, quanto per ciò che evocava. Quando parlo di una “poetica del potere”, mi riferisco anche a questo: all’uso........

© Avvenire