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La faticosa “pace disarmata e disarmante” dei cristiani d’Arabia

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18.05.2025

Il missionario al mio fianco che incontro per caso (per caso?) nel grande abbraccio della piazza ha una sorta di strano sussulto quando sente le prime parole di papa Leone XIV, “pace” e “ponti”: lui ne sa qualcosa. Non posso fare il suo nome, rischierebbe troppo; peggio ancora, con lui rischierebbero tanti amici che ha lì, nella terra dove il cristianesimo ha le radici più antiche ma dove non è possibile pregare Gesù, non è possibile amministrare un sacramento, non è possibile riunirsi nel nome di Cristo.

Lui, padre Filippo (è un nome di fantasia, ma quello vero lo renderebbe subito identificabile e questo non si può), viene dall’Est Europa, si è fatto prete sotto il comunismo, in un altro paese dove la fede era già motivo di sospetto, e professarla pubblicamente rendeva chiunque agli occhi del potere un potenziale nemico dello Stato, poco adatto a ricoprire cariche pubbliche, cittadino di serie B.

Le celebrazioni “segrete” di un prete in incognito

Ora Filippo è missionario nei paesi arabi, e il suo compito è proprio quello di viaggiare in Arabia Saudita. Qui la fede cristiana professata non è ammessa, nonostante ci siano più di un milione e duecentomila cattolici. La maggior parte di loro sono espatriati filippini con un permesso di lavoro temporaneo. Lo Stato saudita ha bisogno di loro per tanti lavori, non fa discriminazioni, tranne una: non possono professare la loro fede, portare articoli religiosi, oggetti che richiamino il loro credo. E libri di qualsiasi culto che non sia l’islam.

L’intera terra saudita è territorio sacro all’islam e c’è una polizia speciale che vigila, la Saudi Arabia Mutaween, in lingua araba la polizia religiosa. Essere scoperti a pregare o portare un Vangelo o un crocefisso comporta la perdita del posto di lavoro, se va bene, ovviamente annunciare il Vangelo in pubblico è un crimine grave. Se poi un musulmano si converte ad altra religione (e si calcola che vi siano almeno sessantamila musulmani convertiti segretamente al cristianesimo) il crimine si chiama apostasia, e può comportare la pena di morte se l’imputato non abiura pubblicamente. Non si ha notizia di esecuzioni di questo tipo nel recente passato, ma va detto che i cristiani sono molto attenti a non farsi scoprire.

«Funziona così», racconta a Tempi padre Filippo: «Nessuno sa che sono un sacerdote, o meglio non lo sanno le autorità. Ma i cristiani a Riyad mi conoscono e quando arrivo mi chiamano, mi vengono a prendere, mi portano in case private o in locali affittati per feste di matrimonio o compleanno. Non hai idea di quanti riescono a stiparsi in una casa privata, in un piccolo capannone. A Pasqua erano 23 mila. Io ero sommerso dalla folla, l’altare scompariva nella calca. Abbiamo pregato a bassa voce, tutti hanno ricevuto il sacramento. Quando mi invitano a cena mi apparto in un angolo, confesso, battezzo. Niente altro. Ma è un rischio grande, se scoperto come minimo io sarei processato ed espulso, ma loro perderebbero tutto. Casa e lavoro. È una profanazione,........

© Tempi