Le tre minacce al futuro del giornalismo e perché la sua crisi ci riguarda tutti
Che il giornalismo sia in profonda crisi è talmente poco una novità che oramai affermarlo è diventato un cliché. Eppure, raramente ci si sofferma a ragionare su quali siano le ragioni di questa crisi, e ancora più di raro su quali sono le sue conseguenze e perché riguardano tutti noi.
A mio modo di vedere, ci sono tre enormi minacce che incombono sul presente e ancora di più sul futuro prossimo del giornalismo: una economica, una tecnologica e una – come dire? – culturale ma molto pragmatica. Ognuna di queste tre minacce basterebbe da sola a infliggere un colpo mortale al giornalismo, almeno per come è stato inteso nel ‘900 e perlopiù ancora oggi lo intendiamo. La micidiale combinazione di tutte e tre rischia di non lasciargli scampo e di mettere anche tutti noi in serissimi guai.
Partiamo dalla prima: oramai non esiste un vero modello di sostenibilità economica per il giornalismo di qualità. Praticamente tutti gli editori e i giornali sono oramai a rischio di annegare nel guado tra il modello precedente – quello delle copie cartacee vendute in edicola – e quello odierno ma che non è mai davvero esistito – quello delle testate on-line basate sulla pubblicità. Perché, è ora di dirlo con tutta la chiarezza possibile, tutta quella narrazione per cui i dati sono il nuovo petrolio, che “se non paghi, il prodotto sei tu”, che la pubblicità targettizzata è un efficacissimo mezzo di promozione e persuasione, è una bufala a cui quasi nessuno è più disposto a credere.
O meglio: molti, moltissimi sono ancora disposti a far finta di crederci o perlomeno a sforzarsi molto nel crederci. Perché accettare che quella meravigliosa storia per cui si poteva sostenere un intero settore del terziario (quindi non solo il giornalismo) a forza di click è – appunto – solo una storia, una favola, significherebbe perdere troppo. Per molti il proprio lavoro, e per ancora di più la possibilità di non pagare o pagare pochissimo servizi di informazione e intrattenimento a cui sono molto affezionati. Ma la realtà è sempre più difficile da ignorare. Oramai a licenziare non sono solo le piccole testate di provincia, ma persino colossi dell’intrattenimento come Prime Video, Twitch o Netflix.
La situazione è ancora più drammatica di quanto non si pensi. Il giornalismo, in particolare in Italia, è un sistema molto più che malato: tra sfruttamento e corsa al sensazionalismo è oramai sclerotico. IrpiMedia ne ha scattato una spaventosa fotografia in questo articolo, che consiglio davvero di leggere (solo due dati per chi va di fretta: un articolo on-line può essere pagato 15 euro lordi; il 40% dei giornalisti è free-lance, di cui tre su quattro non arrivano a fatturare 5mila euro all’anno).
Sì, è vero: esistono alcune – poche, pochissime – “isole felici” che si mantengono grazie a un manipolo di lettori affezionati e abbonati, e che riescono a pagare decentemente i propri collaboratori e fare informazione di qualità. Ma il fatto è che questo modello economico non è scalabile e difficilmente è tutelabile, sia contro la concorrenza di chi dispone di maggiori capitali che contro i poteri a cui inevitabilmente il buon giornalismo capita di pestare i piedi. Per cui è un modello che, se continuerà ad esistere, lo farà solo in poche agguerrite ridotte.
Anche perché – e qui arriva la seconda minaccia: la tecnologia – il costo per fare del buon giornalismo, verificato e attendibile, è destinato ad aumentare vertiginosamente, mentre quello per farne di sciatto e non verificato sta oramai rasentando lo zero. Già oggi è possibile produrre a costi bassissimi video deep-fake assolutamente credibili, in cui persone reali dicono cose che non hanno mai detto – e non parliamo nemmeno di foto e articoli. Il fatto che non ne vediamo ancora molti in giro probabilmente dipende dalla “legge di Amara”, per cui tendiamo a sovrastimare l’impatto delle tecnologie nel breve periodo ma a sottostimare quello che hanno nel lungo periodo.
Probabilmente c’è già chi crea regolarmente video deep-fake, ma si tratta di attori secondari, con poco seguito. Quando però la posta in gioco si alzerà – per esempio durante le ultime settimane di campagna elettorale negli Stati Uniti – non dovremo stupirci se qualche video falso fatto a regola d’arte comincerà a girare supportato da enti, media e istituzioni ritenuti sufficientemente autorevoli. Ai bravi giornalisti desiderosi di fare fact-checking sarà richiesto un lavoro prima difficile, poi soverchiante, infine impossibile per arginare una tale invasione di contenuti falsi ma credibili.
Arriviamo così alla terza minaccia, quella “culturale”: forse la più grave anche se la meno raccontata. Il........
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