Il vero “cambiamento radicale” non è quello di Draghi
“Non siamo abbastanza uniti”. Se si dovesse provare a riassumere in quattro parole l’intervento di Mario Draghi di tre giorni fa, probabilmente sarebbero queste. L’ex primo ministro in conclusione al suo discorso ha sottolineato come “ripristinare la nostra competitività non è un obiettivo che possiamo raggiungere da soli, o battendoci l’un l’altro. Ci impone di agire come Unione europea, come mai prima d’ora”. E per raggiungere questa nuova unità serve un “cambiamento radicale”.
Draghi sta lavorando da tempo a un documento per la Commissione Europea sulla competitività del Vecchio Continente. Questo impone subito un distinguo, che ha infatti prodotto qualche discussione: la competitività è davvero la priorità per l’Europa? Secondo alcuni critici come Dani Rodrick, professore di economia ad Harvard, il punto vero sarebbe invece la produttività, che a differenza della competitività garantisce maggior creazione di valore ridistribuito e che da troppo tempo in Europa è stagnante.
Draghi è conscio della critica, e infatti la cita esplicitamente all’inizio del suo discorso. Tuttavia, la sua opinione è che “non è la competitività a essere viziata come concetto. È l’Europa che si è concentrata sulle cose sbagliate”. Da qui nel suo discorso Draghi snocciola una serie di azioni da intraprendere per portare l’Europa ad agire in maniera più coordinata ed efficiente per restare al passo con le grandi sfide globali.
Ecco, forse è esattamente questo il punto: stare al passo. Draghi fa esplicito riferimento a due concorrenti per l’Europa: gli Stati Uniti e la Cina. In conclusione ricorda che essi “sono in vantaggio perché possono agire ciascuno come un paese unico con un’unica strategia. Se vogliamo raggiungerli…”. Appunto, raggiungerli. Ma un vero cambiamento radicale è quello che ti fa giocare meglio la partita che stai già disputando o quello che ti fa proprio cambiare il tavolo da gioco – magari ribaltandolo?
Quello che chiede Mario Draghi all’Europa è uno sforzo enorme per trovare un’unità politica così forte da dimenticare ogni competizione interna e rivolgere tutta la propria forza produttiva e culturale alla competizione a tre del mondo globalizzato. Ma, pur sorvolando sulla questione se sia effettivamente ragionevole o credibile chiedere un tale sforzo politico all’Europa, non si rischia così di far rientrare il problema dalla finestra? Voglio dire, se l’Europa ha perso il treno dello sviluppo perché impegnata in beghe e rivalità interne, in un mondo globalizzato una rinnovata competizione tra potenze non rischia di fare lo stesso – e anzi forse peggio?
Il punto, a mio modo di vedere, è questo: a cosa serve davvero un’economia? Si potrebbe dire a moltiplicare le risorse e migliorare il benessere dei membri della comunità. Ma questo, a pensarci bene, non è il vero scopo finale, che invece è il mantenimento del patto sociale, senza cui nessuna comunità può esistere. Il fatto è che le due cose per millenni sono andate di pari passo: non si poteva avere un patto sociale se non si aveva la capacità di produrre beni di prima necessità e di distribuirli. Detto altrimenti: nessuna comunità sta insieme se i suoi membri fanno la fame. Ma ora il paradigma è cambiato.
Oggi infatti, perlomeno noi in Occidente, non viviamo più in un mondo di scarsità, ma di abbondanza. Anzi, non di rado di sovrabbondanza. La nostra capacità produttiva è aumentata tanto nell’ultimo secolo che – anche se non ci piace per nulla sentircelo dire – sia da un punto di vista di scelte che di risorse siamo spesso bloccati dalla troppa offerta. La moltiplicazione di opportunità porta al disorientamento (lo si nota soprattutto tra i giovani) e quella delle risorse a un........
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