Integrare per affrontare disuguaglianze concrete: serve un patto di cittadinanza per i minori stranieri
Il recente referendum sulla cittadinanza agli stranieri non ha raggiunto il quorum e tra i votanti le risposte positive sono state inferiori rispetto ad altri quesiti. È un segnale chiaro: il tema suscita diffidenza e insicurezza. Molti italiani temono “l’invasione” e percepiscono lo straniero come una minaccia. Proprio per questo è stato un errore affidare la questione a una consultazione popolare.
La cittadinanza ai minori nati o cresciuti in Italia non può essere ridotta a un sì o no emotivo. Serve una discussione approfondita in Parlamento, al di là dei calcoli elettorali. Non è un tema da consensi facili, ma una scelta strategica sul futuro del Paese.
In Italia vivono oltre un milione di minori stranieri, di cui circa 870.000 studenti senza cittadinanza: la maggior parte è nata qui o vi è arrivata nei primi anni di vita. Frequentano le scuole, parlano italiano come prima lingua, ma vivono in una condizione di precarietà esistenziale perché non si sentono cittadini italiani. Restano stranieri fino ai 18 anni, e anche dopo devono affrontare un iter complesso per ottenere la cittadinanza. Piccoli ritardi o errori burocratici possono far sfumare un diritto. Questa rigidità riflette una normativa pensata più per contenere che per integrare. La soluzione di assegnare automaticamente subito alla nascita la cittadinanza di un dato Paese per il solo fatto di nascere in quel territorio (ius soli) presenta varie controindicazioni, motivo per cui molte nazioni, anche quelle più disponibili, non l’hanno adottata. In passato è stata proposta una via intermedia: lo ius scholae, legato alla scuola. Cinque anni di frequenza o due cicli scolastici completi sono un segno oggettivo di radicamento. Un criterio serio e verificabile. Questa riforma dovrebbe essere accompagnata da un impegno per la condivisione dei valori fondamentali del Paese: Costituzione, legalità, democrazia, parità di genere. Non si tratta di imporre un’ideologia, ma di definire un “patto di cittadinanza” civile e culturale.
La legge non deve essere percepita come una minaccia alla sicurezza. Per questo vanno previste tutele per chi vive più direttamente i disagi dell’immigrazione. Occorrono regole chiare per governare i flussi, contrastare l’irregolarità, garantire un’accoglienza sostenibile, combattere il lavoro nero e lo sfruttamento, sostenere i territori più esposti alle tensioni sociali. Un approccio coerente aiuta a rassicurare chi teme di essere abbandonato, rafforzando la fiducia nelle istituzioni.
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