La destra vuole privatizzare perfino la morte
Stanno tentando di abbassare ancora l’asticella. In Senato, in Commissione Affari Sociali, la maggioranza ha depositato emendamenti che escludono il Servizio sanitario nazionale da ogni fase delle procedure di fine vita: niente personale, niente farmaci, niente strutture pubbliche. Tradotto: la possibilità di accedere al suicidio medicalmente assistito diventerebbe, di fatto, un servizio per chi se lo può pagare. È l’idea più classista che si potesse immaginare, applicata perfino alle ultime volontà, alle ultime sofferenze.
Questa scelta racconta la vera natura della destra di governo. Si proclama “liberale”, ma nega la libertà più intima — decidere del proprio corpo e della propria vita — e la concede solo a chi ha un patrimonio sufficiente. Dice di “difendere la vita”, ma impone sopravvivenze forzate persino quando l’esistenza è ridotta a dolore senza dignità. E poi fa un’eccezione: se paghi il privato, allora si può discutere. È la privatizzazione della morte.
La politica, invece, deve stare accanto alle persone, non al posto loro. Difendere la vita significa rispettare la volontà di chi, in condizioni estreme e irreversibili, sceglie di interromperla. E garantire che quel percorso sia seguito dal pubblico, dentro regole chiare, con controlli e assistenza, perché nessuno debba affrontare da solo la decisione più difficile.
Non lo dico io: lo dice la Corte costituzionale. Con la sentenza 242/2019 (caso Cappato–Dj Fabo) la Consulta ha delimitato con precisione l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio: patologia irreversibile, sofferenze intollerabili, mantenimento in vita con trattamenti di sostegno, piena capacità di decidere. E ha indicato che la verifica delle condizioni spetta al Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico. È un perimetro rigoroso,........
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