COP30, risposte giuste alla domanda sbagliata?
Nel 1898 la città di New York convocò una conferenza mondiale sull’urbanistica alla quale parteciparono sindaci e opinion leader di tutte le principali città del mondo. I pianificatori urbani e gli ingegneri affrontarono il problema del trasporto urbano e dei rifiuti equini.
I partecipanti ammisero la propria impotenza di fronte a quella che nel 1894, a Londra, era stata definita “la grande crisi del letame”. I resoconti dell’epoca (riportati da The Times e The Economist) descrivono come, dopo giorni di dibattiti, la conferenza si chiuse in anticipo perché nessuno riusciva a proporre una soluzione efficace, a parte limitare per legge il numero di abitanti di una città. La metropoli cresceva, i cavalli si moltiplicavano, le strade sparivano sotto tonnellate di sterco equino.
La soluzione, quando arrivò, non fu una pala migliore o un sistema più efficiente di raccolta. Fu un cambio di paradigma radicale: dall’energia animale al motore a combustione interna. Una soluzione quasi inattesa, che esulava dal radar degli esperti.
In questi giorni, a Belém, dal 10 al 21 novembre 2025, si sta svolgendo la 30° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Conference of the Parties, o COP30), che ci mette davanti allo stesso bivio storico e concettuale, con una domanda che vale miliardi di investimenti e decenni di pianificazione strategica: possiamo continuare a ottimizzare l’esistente attraverso obiettivi più ambiziosi, qualche flusso aggiuntivo di finanza climatica e litri di biocarburante, oppure è arrivato il momento di cambiare mezzo, ossia uscire strutturalmente dalla dipendenza dai combustibili fossili e ridisegnare alla radice i nostri modelli di produzione, mobilità e consumo? Una domanda che ci pone ancora una volta di fronte ai cicli di innovazione, che si ripetono inesorabili nella loro dinamica tra come si innova e cosa si innova.
Dall’analisi dei fatti recenti emerge una tensione irrisolta tra ambizione ed esecuzione che dovrebbe far suonare più di un campanello d’allarme nelle sale dei Chief Executive Officer e Chief Financial Officer. L’Unione europea ha trovato, dopo oltre ventiquattro ore di negoziati notturni conclusi il 5 novembre, un compromesso su tagli delle emissioni tra il 66,25 e il 72,5% entro il 2035 rispetto ai livelli del 1990, il che rappresenta una buona notizia sul piano della comunicazione politica, ma non costituisce ancora un vero cambio di paradigma o di mezzo di trasporto. È, per usare la metafora di partenza, un’ottimizzazione del sistema basato sui cavalli.
Sempre il solito errore nell’approccio dell’innovazione: trovare nuove risposte alle stesse domande, ovvero abbracciare l’ottimizzazione e l’efficientamento, invece di porsi nuove domande con nuove risposte.
A ridosso dell’apertura di COP30, solo un terzo dei 162 Paesi che hanno confermato la presenza alla conferenza – su 175 firmatari dell’Accordo di Parigi – aveva aggiornato i propri Contributi Determinati a Livello Nazionale (Nationally Determined Contributions, o NDC), rivelando un deficit strutturale non solo di volontà politica, ma di accountability sistemica. La scadenza originaria era febbraio 2025, poi prorogata a settembre, eppure il 95% dei governi non ha rispettato nemmeno la deadline estesa. L’apertura dei lavori è avvenuta tra grandi attese e assenze pesanti, che confermano quanto la diplomazia climatica resti fragile e vulnerabile alle oscillazioni geopolitiche: gli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump non hanno inviato alcuna delegazione ufficiale dopo il ritiro dall’Accordo di Parigi, mentre Cina e Argentina hanno disertato il summit dei leader.
La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui........





















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