Gaza, il genocidio e l’uso delle parole che costruiscono le nostre coscienze
Quest’anno, nei trent’anni dal genocidio di Srebrenica, sulla facciata di un edificio a Sarajevo che sempre ricorda i giorni dell’assedio, cappeggiava uno striscione: diceva all’incirca “smettete di ammazzare i bosniaci per i vostri pregiudizi cristiani” e sopra c’era la foto dei caschi blu dell’ONU che a Srebrenica si macchiarono della più grave colpa, il tradimento della popolazione inerme.
Lasciando da parte l’enfasi e le iperboli che spesso accompagnano questo tipo di dichiarazioni e portano a liquidarle in fretta, c’era però un sottotesto che ha continuato ad accompagnarmi: l’idea che esista un’umanità di serie A e di serie B, diritti umani che valgono per alcuni più che per altri, singoli o gruppi che risvegliano le nostre coscienze in maniera differente.
È un pensiero mostruoso, di fatto testimoniato dalla Storia. La questione torna oggi in maniera non rimandabile davanti agli accadimenti di Gaza.
Nell’estate del 1995, mentre migliaia di civili, uomini e ragazzi musulmani venivano uccisi con sistematicità genocidaria a Srebrenica e nei luoghi limitrofi, non pochi di noi andavano in vacanza nelle coste dalmate, i traghetti continuavano a fare avanti e indietro da Spalato ad Ancona.
Certo, ci si informava, ci si preoccupava, ma era estate e bisognava pur riposarsi. Sono passati trent’anni e ancora oggi, in Italia, si fatica a chiamare quello che accadde a Srebrenica con il termine con cui è stato giudicato dai tribunali........
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