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L’estate di Luisa M. che accese ombre dietro le imposte

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Ci sono estati che non finiscono mai, perché non riusciamo a dimenticarle.

Avevo quindici anni l’agosto in cui conobbi Luisa. Ero in paese, da mia nonna, mentre i miei lavoravano ancora. Avevano un ristorante in città, andava a gonfie vele.

Quell’estate, il caldo era di quelli che spaccano l’asfalto e ti fanno sentire la testa leggera, come se stessi per svenire, o per volare via. Una di quelle estati di cicale, di odore di basilico e salvia sui davanzali, di luce.

Soprattutto di luce. Una luce esagerata, che si mangia i colori come in vecchie fotografie sovraesposte.

Vidi Luisa per la prima volta in un giorno come tutti gli altri, al ritorno di uno dei miei infiniti giri in bicicletta. Ero sudato, accaldato, pieno dei pensieri esaltati e sconnessi degli adolescenti.

Prima di arrivare dalla nonna, dovevo passare davanti a una casa con le imposte azzurre e il vialetto in ghiaia. Era vuota da quando me la ricordavo, e a me, se volete saperlo, metteva una strizza tremenda. Quindi acceleravo, raccontandomi che era per fare la volata prima del traguardo.

Fu lì che vidi. Seduta sul muretto di quella casa. Indossava un abito leggero bianco. Era scalza. Mi fece un cenno di saluto con la mano, facendo ondeggiare le dita, proprio come stesse aspettando me.

Inchiodai, scodando e rischiando di cadere. Aveva i capelli rossi, ma non come quelli che si vedono di solito. Erano rossi come il tramonto che ti sforzi di fissare anche se ti costringe a strizzare le palpebre. E gli occhi, verdi, grandi, così mobili, ti facevano sentire sempre osservato.

Mi sedetti accanto a lei. Un comportamento bizzarro per un ragazzino timido come me, ma mi sembrò la cosa giusta da fare. Forse perché non avevo scelta, ma allora non lo sapevo.

Nella mia adolescenza solitaria e irruenta, la trovavo bella. Se fossi stato capace di articolare un pensiero scevro dalle tempeste ormonali,........

© Corriere delle Alpi