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Ci sono i soldi e c'è la stabilità politica. Ma l'Italia non va

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22.12.2025

Ci sono due affermazioni che praticamente da sempre vengono utilizzate per giustificare l’incapacità della politica – in particolare di quella italiana – nel far crescere un Paese sia da un punto di vista economico che sociale. La prima è “non ci sono i soldi”, e la seconda è “il governo è troppo debole”. Gli ultimi anni hanno dimostrato che entrambe queste giustificazioni, almeno per quanto riguarda l’Italia, non sono più credibili.

Mentre il 2025 giunge al termine, il governo Meloni si trova impantanato in una febbrile e furiosa discussione per approvare in extremis la legge di bilancio per l’anno prossimo, con lo spettro dell’esercizio provvisorio che si fa di ora in ora più tangibile. Eppure stiamo parlando di un governo dalla maggioranza granitica, con una leader che titaneggia sugli alleati e sull’opposizione, e soprattutto che ha ridotto il Parlamento e poco più di un orpello cerimoniale.

Si tratta peraltro di una legge finanziaria per nulla ambiziosa, e anzi molto contenuta e prudente. Soprattutto, però, riguarda l’ultimo anno in cui il governo potrà spendere i soldi del PNRR: oltre 191 miliardi tra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti su cui l’Italia ha potuto contare per colmare i gap strutturali che l’affliggono e rilanciare la crescita e l’innovazione. Non solo: con l’aumento dell’occupazione e della tassazione nonché la diffusione della fatturazione e dei pagamenti elettronici, anche il gettito fiscale negli ultimi anni è aumentato.

Insomma, dopo tre anni di esecutivo solidissimo e cinque anni di capitali ingenti disponibili, il Paese non sembra aver fatto nessun significativo passo in avanti – anzi. Dal punto di vista economico, sebbene ci siano stati dei miglioramenti consistenti nel deficit e saldo primario, la crescita del PIL ha sempre oscillato tra lo 0,5% e l’1% restando agli ultimi posti in Europa, la produzione industriale è in declino costante e il reddito pro-capite è addirittura in contrazione. Dal punto di vista sociale, le disuguaglianze aumentano, così come la conflittualità, l'isolamento e la depressione.

A questo spettacolare fallimento si può proporre un’altra spiegazione, in effetti ancora più frequente e popolare: l’incapacità della classe politica e dirigente italiana. Si tratta però abbastanza evidentemente di una affermazione piuttosto fragile: sebbene effettivamente ai vertici della società e della politica italiana non manchino persone poco adeguate al loro ruolo, è poco credibile pensare che si tratti di una condizione così profonda e trasversale da condizionare praticamente ogni esponente di ogni schieramento politico degli ultimi vent'anni e più.

Peraltro, non si tratta di un problema solo italiano. Sebbene da noi l’impaccio della politica e l’immobilismo istituzionale siano più evidenti, anche altrove le strutture statali perdono fiducia agli occhi dei cittadini. In Francia la crisi istituzionale è conclamata, in Gran Bretagna e Germania i governi sono deboli e con opposizioni estremiste che aumentano, negli Stati Uniti il “sogno americano” non convince quasi più nessuno e in Cina il rallentamento economico sta facendo aumentare il malcontento di una popolazione già privata di diritti politici.

Insomma, in tutto il mondo o quasi le persone non credono più che la politica, le istituzioni, la classe dirigente pubblica possano davvero migliorare le cose. Ci deve quindi essere qualcosa di più profondo a decretare il progressivo indebolimento – o persino fallimento – dell’azione dello Stato agli occhi delle persone. Qualcosa di “universale”, ma che nel nostro Paese è più evidente. Si possono allora forse individuare tre cause.

La prima, fondamentale, è che oggi il mercato domina sulle istituzioni, che non riescono più a svolgere la loro fondamentale azione redistributiva. I soldi sono sempre di più, ma tendono sempre più ad andare alle stesse persone e organizzazioni, che perpetuano strutture amministrative, politiche e persino culturali gigantesche ma allo stesso tempo soffocanti. Il capitale produce più ricchezza del lavoro, e la finanza punta molto più alla speculazione di breve termine che all’investimento di lungo termine.

Gli Stati si trovano così a provare a mettere delle pezze a un sistema che tende sempre di più a mettere fuori gioco un numero crescente di attori, dai lavoratori meno qualificati alle medie imprese, che trovano sempre più difficile tutelarsi e........

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