L’errore di chi abolisce i programmi di diversità e inclusione è averli introdotti
Mark Zuckerberg e Jeff Bezos hanno recentemente deciso di abbandonare i programmi di diversità, equità e inclusione (i famigerati Dei) nelle loro aziende (Meta e Amazon), e gran parte dei media commenta pigramente che è “l’effetto Trump”: la rielezione del presidente repubblicano, infatti, avrebbe spinto molti grandi gruppi americani a rivedere le loro posizioni su temi sensibili al politicamente corretto per evitare ritorsioni politiche e ingraziarsi la nuova amministrazione (sta succedendo sul clima, ad esempio, dove sempre più banche americane lasciano la coalizione per la sostenibilità ambientale, seguite, pochi giorni fa, anche da Black Rock). In realtà l’abbandono delle pratiche aziendali antidiscriminazione woke ha origini antecedenti al 5 novembre scorso.
Una tendenza iniziata ben prima di Zuckerberg
Come ha scritto Mattia Ferraresi proprio su Tempi di quello stesso mese, «non è stata una scoperta improvvisa, ma una tendenza che nel giro di pochi anni si è manifestata nelle grandi aziende e nelle università, i laboratori dove la precettistica sull’essere buoni, non discriminare il prossimo, non offendere la sua sensibilità identitaria e non usare altro pronome al di fuori di quello indicato nella bio hanno dato origine a nuove pratiche aziendali, training obbligatori, scelte strategiche, norme di comportamento».
Toyota, McDonald’s, i grandi magazzini Lowe’s, il produttore di macchinari agricoli John Deere, Bud Light, Harley Davidson, Brown Forman, Ford sono alcune delle grandi aziende ad essersi smarcate dalla corsa a chi è più politicamente corretto e inclusivo, chi riducendo il sostegno alle cause Lgbtq ,........
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