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Il medico che fabbrica esseri umani: «Prima li faceva Dio. Ora li faccio io»

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13.04.2025

«Facevo il mio solito lavoro, poi uno si rende conto vedendo il film che il mio solito lavoro è quello di fare essere umani, in forma piccola con gli embrioni e in forma grande con le persone che transitano [iniziano un percorso di transizione di genere, ndr]. E forse non è un lavoro come tutti gli altri, solo vedendolo uno se ne rende conto, perché lo fa tutti i giorni. Detto un po’ brutalmente è un lavoro che fino a pochi anni fa lo faceva la divinità, quello di fare gli esseri umani. Adesso lo fanno anche gli uomini, però per me è un lavoro normale». A parlare al pubblico di Bologna è il dottor Maurizio Bini, durante il dibattito che martedì 8 aprile è seguito alla proiezione del film GEN_ di cui è protagonista.

La pellicola, diretta da Gianluca Matarrese e presentata al Sundance Film Festival, esplora la quotidianità del lavoro del dottor Bini all’ospedale Niguarda di Milano, il rapporto con pazienti che vivono l’esperienza di una fatica a concepire, e quindi ricorrono alla fecondazione assistita o alla crioconservazione, e con pazienti che affrontano un percorso di transizione di genere.

Il lavoro del dottor Bini: fare esseri umani

«Ciò che accomuna il percorso di fecondazione assistita e quello di transizione di genere è l’assunzione di ormoni ad alte dosi», spiega Bini. E Donatella Della Rata, antropologa e sceneggiatrice del film, approfondisce: la triptorelina, tanto incriminata per i casi di transizione di genere in ragazzi in età puberale, «è lo stesso farmaco che si dà alle donne che cercano di fare la fecondazione in vitro per bloccare il ciclo. È la stessa cosa, cambia solo la lettura sociale dell’ormone. Viene accettato nel caso della fecondazione in vitro perché è accettato un contratto tra due persone eterosessuali, mentre nel caso della transizione di genere non è accettato e ostacolato da un governo come questo».

Gli ormoni, dunque, sono un elemento cruciale. Il film indugia ripetutamente a zoomare sugli zaini e sulle borse dei pazienti che entrano vuoti a colloquio con Bini ed escono pieni zeppi di farmaci. Escono anche accarezzati dall’empatia di Bini, capace di accoglienza e amabilità, capace di parlare usando i pronomi adeguati, autorevole nell’affermare che il suo compito è fare la cosa giusta. E nel suo mestiere significa, in certi casi, stare sul bordo della legge. Presidia coi guanti questo confine «perché non si possono far passare tutti i desideri, ma non si possono ostacolare tutti i desideri». Tra il giusto e il legale, sceglie il giusto. Aggettivo vertiginoso da tenere nelle proprie mani, per quanto guantate.

«È medicina di confine, sulla quale non sparano proiettili, ma cavolate ne sparano tante», condivide Bini col pubblico di Bologna. «È una medicina sulla quale tutti hanno qualcosa da dire, su emorroidi e tonsille non ho mai sentito dibattiti in televisione». Forse perché, ci scusino i proctologi e gli otorini, il senso comune delle persone è sufficiente per rendersi conto che toccare la vita e l’identità di una persona è davvero un presidio su cui stare all’erta, per il bene della comunità.

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